Pensieri
Ero un po’ basita da tutto quello che mi aveva spiegato Emma al telefono. Mi sembravano troppe le cose da dover assimilare e fare per il piccolo ruolo che dovevo coprire.
Sono appena uscita dal portone del palazzo dell’azienda e salutato S. con la frase promessa “a domani”. Adesso chiamo mamma e le spiego per filo e per segno com’è andata la giornata.
Inizio la mia passeggiata a passo svelto verso la metro. Ho un po’ di timore nello scendere le scale nella penombra. Forse parto da un preconcetto tramandato da conoscenti e tv, ma quando vedo gruppetti di stranieri vado in apprensione. (Scusate, alla fine ho imparato a guardarmi bene prima dagli italiani stessi e poi dal resto del mondo)
Fortunatamente al centro di Roma c’è movimento, nel caso in cui a qualcuno venga voglia di infastidirmi.
Ecco apparire nella mia mente due domande manifesto appiccicate all’interno del cranio, lato fronte, così da poterle leggere nitidamente: 1. Sentendoti gridare qualcuno interverrebbe per aiutarti? 2. Avresti la forza di gridare?
– Zeta, Zeta mi senti? Pronto! –
– Mamma, ciao, si, ti sento. Ero soprappensiero, scusa – Non mi sono resa conto che la cuffia del cellulare ha smesso di suonare.
Inizio a raccontare tutta la giornata trascorsa a lavoro, descrivendo l’azienda e la mia postazione, tutte le cose che dovrei fare e, ora che ci penso, la pessima organizzazione. Possibile che io abbia dovuto fare affiancamento al telefono e che nessuno sia in grado di definire il mio ruolo?
Chi sono io in questo posto?
Salgo in metro.
– Zeta a mamma, tu sai che il lavoro è importante e ti serve. Il contratto è buono, ti mettono subito a posto. Fai la prova con tranquillità. Non partire in quarta, magari questa prima giornata è stata per te un bombardamento di nozioni e ti senti spaesata perché disabituata. Io ti consiglio di non trarre conclusioni affrettate, ma di tenere sempre a mente la tua salute. –
Mia madre è un’appassionata di psicologia per cui tende ad utilizzarla soprattutto con noi figli.
– Non ho detto che volevo andare via però non so. Una sensazione fa attivare i miei sensi di ragno. –
Ride piano mamma. Mi manca prenderla un po’ in giro, è il mio modo di dirle che le voglio bene.
Dopo poco ci salutiamo, deve scolare la pasta e mettere la cena a tavola.
Per il tempo di due fermate ho assistito allo spettacolo di un “mago” e per altre due o tre, non ricordo, un artista con chitarra non italiano che canta canzoni di un certo spessore naturalmente italiane. È stato di compagnia, forse ho qualche moneta? Si, gliela lascio.
Non diventerà un’abitudine, tranquilla. Dico a me stessa. Ormai devo stare a contare i centesimi e nella mia mente partono in automatico i calcoli della sopravvivenza. Con un euro prendo il caffè, se lo regalo e voglio prendere il caffè poi sono due euro spesi e prendendo la metro andata e ritorno sono altri tre euro che devo sommare ai precedenti, per cui andrei a spendere cinque euro in un giorno da moltiplicare per cinque giorni e poi ancora per quattro. Fermati. Non ci pensare.
A mano a mano che ci allontaniamo dal centro la metro si svuota e i posti per sedersi sbucano come funghi.
Bene, devo scendere e con me poche altre persone. Salgo e risalgo le scale sempre a passo svelto.
Finalmente vedo il cielo notturno e sento qualche clacson in più. Qui a Roma sembra di moda suonarlo ripetutamente.
Con lo sguardo cerco la macchina di R. che mi è venuta a recuperare, un volto amorevole finalmente.
Trovata. Salgo. Bacino. Partiamo.
Racconto anche a lei com’è andata la giornata. Per farglielo sapere, per sfogarmi.
– Amore ti sei lamentata fino a poco fa che stavi a casa, non c’è la facevi più, avevi bisogno di lavorare per costruire qualcosa. –
Esordisce iniziando la cantilena di un elenco che conosco bene, scritto da me, appositamente per ricordare che mi sono scocciata di stare senza far niente a casa, di buttare le mie giornate.
– Si amò, me lo ricordo non ti preoccupare e comunque non ho detto che voglio mollare o altro, ti sto raccontando le mie sensazioni a riguardo di questa prima giornata. Magari domani andrà meglio. Che mangiamo? – chiedo cambiando argomento. Sono stanca e non ho voglia di discutere o di dover combattere per far valere il mio pensiero.
– Amore ci sono gli affettati e il formaggio e l’insalata per te. Mangiamo in camera che voglio vedere quel programma bello? –
Posso rispondere una cosa diversa dal si? Certo che no.
Oramai la stanzetta di R. la gestiamo come un monolocale, anzi tipo BeB, esatto, è il termine corretto.
Mi serve il lavoro, voglio uscire anche da questa situazione. Voglio una casa mia, i miei spazi e poter girare nuda o con la pancia da fuori o anche in mutande. Mangiare cose diverse, come prima.
Decidere.
Costruire.
Un lavoro mi serve proprio e al momento questo è quello che passa il convento.
