Fortunata
Oggi è il grande giorno. Sarò ancora una volta messa sotto esame, magari per l’ultima.
-Spacca tutto amore mio e stai tranquilla- mi dice R. sulla porta di casa sua mentre chiamo l’ascensore schiacciando il pulsante argentato. Mi scoccio di scendere sei piani a piedi.
Me lo dice con tutto l’amore possibile, la speranza e la consapevolezza che io possa ottenere il lavoro, perché sono capace. Con o senza laurea ho sempre lavorato e posso farcela anche qui, nella Capitale.
Parcheggio la macchina come al solito, nei pressi della metro. La mia attenzione viene attirata subito da alcuni rumori metallici, un giovane ragazzo si sta sporgendo con tutta la parte superiore del corpo in un cassonetto dell’immondizia.
In cerca di cosa?
Forse cibo oppure crede di trovare qualche oggetto senza più anima da poter rivendere in qualche modo?
Ha una canottiera bianca con un piccolo buco sul davanti, dove batte il cuore, dei jeans poco larghi e lunghi e delle scarpe da ginnastica non troppo consumate rispetto al resto.
Lo guardo e penso ai miei fratelli, filo dritta. Scuoto la testa sperando che questa immagine esca dai miei pensieri. Cammino svelta, ho i minuti contati.
In metro non voglio chiamare mamma, preferisco concentrarmi immaginando cosa potrebbe chiedere Rasputin, anzi meglio liberare la mente ascoltando un po’ di musica.
Siccome salgo al capolinea, riesco a sedermi quasi tutte le mattine, calpestando metri e metri di metro arrivo all’ultimo vagone, ideale soprattutto quando ci avviciniamo al centro per non restare bloccata nella compattezza delle sardine in scatola.
Da lontano vedo arrivare una bimba, “una zingarella”. Bionda, con la pelle forse sporca oppure scura di suo. Dal movimento delle labbra capisco che sta chiedendo soldi perché ha fame. La folla si apre come se avesse la lebbra. Tutti si mantengono la borsa, gli zaini, i borselli e le valigie. Non bastano le ciabatte rotte ai piedi e i vestiti leggeri, sottili, per impietosire la gente, me; perché si sa che la maggior parte di questi ragazzini poi ruba. Ti sfilano i portafogli e i cellulari dalle tasche, allora perché dargli una moneta? Perché concedergli il beneficio del dubbio?
Cosa avrà mai potuto fare una bambina per meritare questa povertà, elemosinando e vivere in un mondo dove abbiamo tutti paura del prossimo, la fiducia è sottovalutata e non ci lasciamo abbindolare neanche più da due occhi color smeraldo che chiedono aiuto.
Non ha fame, vorrebbe essere aiutata. Tolta dalla strada e dalla vita di merda a cui è costretta a vivere. Magari torna la sera in una roulotte fredda e viene presa in malo modo anche dai genitori perché non è stata in grado di fregare noi pendolari, purtroppo abbiamo tutti imparato ad essere sterili.
Non riesco ad essere migliore degli altri. Mi nascondo dietro agli occhiali da sole e fingo di non aver avuto nessun cedimento emotivo. Devo arrivare in quel covo di piccole serpi integra, forte, focalizzata sul mio obbiettivo.
Esco dalla stazione centrale, mi pare ci siano tanti più senza tetto del solito. Buttati a terra o su qualche cartone o coperta lercia. Chiacchierano tra di loro sereni, gesticolano. Alcuni mi sembrano scheletrici, con la pelle consumata dalla strada, abbronzatissimi. Incrocio il sorriso di un signore anziano che ricambio, non so precisamente come mai ma vederlo sorridere mi ha fatto stare bene.
In fondo vedi che è più sereno di te?
Ma come ci si riduce così? Cosa succede nella vita di una persona per finire senza niente, abbandonato, con la valigia piena di vuoto e porti con te solo te stesso che perdi per i vicoli, dove ti accolgono solo i market dei bengalini perché vai ad acquistare da loro quella merda da bere che costa poco.
Resta nella mia mente quel sorriso, lascio che mi accompagni. È un qualcosa di inaspettatamente importante.
Se quel signore che potrebbe avere il diritto di essere disperato non lo è, io proprio non me lo posso permettere di lasciarmi travolgere dai giudizi negativi, disperandomi come se stesse per finire il mondo. Io la sera torno a casa e trovo un piatto caldo a tavola e le braccia di qualcuno che mi ama a sostenermi. La mia famiglia che prova ad alleggerire il macigno che porto come uno zaino sulle spalle, io continuo a tenerlo stretto ma ho qualcuno che prova a toglierlo di continuo.
Mancano un paio di minuti e sarò giù al portone. Inizio a togliere le cuffie. Respiro. Mi abbottono le maniche della camicia per coprire i tatuaggi.
Passa di fianco a me una signora che potrebbe avere la stessa età di mia madre. Sembra pazza, parla da sola. Ai piedi ha due bottiglie di plastica schiacciate, una trasparente e una verde, legate ai piedi con delle bustine di plastica. Sta fumando e parlando a vanvera senza prestare attenzione ai passanti che la osservano disgustati quasi. Ridono alle sue spalle.
Forse pazzi ci si diventa in queste condizioni. Quando perdi tutto te ne sbatti i coglioni di come ti vedono e di quello che pensano. Sono semplicemente altri stronzi che ti giudicano perché non hai le scarpe, perché magari le hai vendute per sopravvivere oppure comprarti il fumo che ti fa sentire ancora viva, che ti permette di avere ancora una parvenza di atteggiamento egocentrico verso il mondo che ti ha letteralmente voltato le spalle.
Mi fermo, mancano quindici minuti all’inizio del mio turno di lavoro.
Vado a prendere un caffè per togliere dalla mia testa tutte queste persone che ho incrociato sul mio cammino. Probabilmente avrei fatto meglio a chiamare mamma.
Ho un minuscolo crollo. Non mi va il caffè. Adesso vorrei correre per scaricarmi, vorrei piangere per tutte le persone che vengono aiutate una volta al mese da chi finge di fare volontario per comparire sui TG regionali o nazionali.
Vorrei solo poter essere più grata per la vita che ho. Vorrei ringraziare la mia Famiglia per avermi sempre amata e la mia psicologa per avermi aiutata a leggere la bussola.
Sono una ragazza fortunata.
Fanculo a sto c***o di lavoro, come vada, vada, io sono fortunata.
