Cene
Ormai erano trascorsi un paio di mesi abbondanti dalla data d’assunzione in quella società, di pazzi (specificherei), finalmente per S. e C. avevo superato tutte le prove possibili per auto-invitarmi ufficialmente ad una cena spartana, organizzata da me, con loro e annessi e connessi per frequentarle oltre quelle quattro mura tossiche.
Nel corso delle giornate in cui potevamo concederci qualche chiacchiera non inerente a calcoli, stanze fittate, Rasputin e Grigio, avevo scoperto che una era single da un po’ e l’altra invece era strafidanzata, il suo tipo era tatuato, simpatico e alla mano, relativamente alto, uno apposto.
Alla cena sarebbe venuta anche L. e rispettivo, di cui non conoscevo nulla se non il nome. L., contabile, amministratrice della società, non l’avevo ancora inquadrata per bene, la vedevo molto poco perché lavorava nella stessa sede di Giorgio, quella dove avevo affrontato il mio colloquio ma voci di corridoio raccontavano che prima della mia assunzione era lei il capro espiatorio dei malesseri di Rasputin. In un certo senso avevo preso il suo scomodo posto anche se con due ruoli totalmente differenti.
A volte mi chiedo come mai non intraprenda un percorso terapeutico, le farebbe bene a mio modesto parere.
In tutto ciò, avevo naturalmente auto-invitato anche R.
Giorgio non era contemplato tra gli ospiti, anche perché io volevo stare sbracciata e senza anelli, iniziava a fare caldo e il mio corpo chiedeva pietà per tutte quelle ore dove le camicie mi si appiccicavano letteralmente addosso come un ulteriore strato di pelle colorato di cotone o lino. Sì, perché i condizionatori si potevano accendere quando per i corridoi della società si iniziavano a vedere danzatrice del ventre, dromedari oppure oasi verdi, insomma quando si aveva la sensazione di essere nel deserto cocente si potevano finalmente accendere. Quello nella segreteria era d’altri tempi, faceva un rumore infernale e molto spesso lo accendevo ad intermittenza, era così fastidioso che mi veniva difficile sentire le richieste dei clienti al telefono.
Tornando alla cena, di naso importante non mi fidavo e io sentivo la necessità di voler essere me stessa al 100%, ridere, fare battute imbecilli, provare anche a legarmi quei corti capelli che mi ritrovavo alla meno peggio, in modo non ordinato.
-Ma chi se ne frega, con loro non mi sento giudicata, nel caso in cui l’abbiano fatto non me ne sono per niente accorta. Evito di uscire con la tuta perché sarei davvero troppo spartana e poi è la prima volta che ci vediamo fuori da tugurolandia quindi un minimo di buona impressione vorrei farla. –
Dicevo alla mia ragazza mentre infilavo dei jeans stracciati a vita alta da vera “rebel woman”, accompagnati da una maglietta corta e scarpe da ginnastica, insomma sembravo ‘na pischelletta, ero ringiovanita di dieci anni buoni.
A parte la ramanzina di S. per quegli “osceni pantaloni da coatta mentre te hai un animo da signora raffinata” (era una frase del genere) la cena andò più che bene, io parlavo a raffica con tutti, facendo anche battute insensate, l’importante era ridere, ridere, coprirsi la bocca per le troppe risate, ne avevo così tanto bisogno che proposi tante altre cene.
Voglio che si sappia che nel marcio di quelle quattro mura, assunta da persone che credono che i propri dipendenti, perché pagati, siano pedine da muovere e spostare ed eliminare a proprio piacimento, ho trovato persone sane, umane, vere, che a me ci tengono per la persona che sono (spero).
Un giorno mi mancherà non fare faccine oscene da stickerizzare oppure TikTok completamente senza voglia (che poi in fondo, in fondo mi viene bene).
Sono arrivata ad un punto di questa storia dove tra le cose brutte del lavoro, quelle belle delle nuove amicizie, l’evoluzione amorosa e la voglia di evadere, succederà qualcosa nella mia vita che avrà un forte eco, un pugno in pieno petto e più mi avvicino al doverlo raccontare e più i pensieri si rifiutano di elaborare testi.
