Colloquio – Parte seconda
Entro in una camera con degli infissi in legno, aperti ma con le tapparelle quasi del tutto chiuse.
Non sapendo se dall’altro lato della scrivania ci sia un imprenditore, un ingegnere, un dottore, per me poteva essere un avvocato, dato che nulla è stato specificato nella chiamata intercorsa il giorno prima; saluto educatamente, chinando lievemente il capo, e vivacemente. Non mi piace che possano pensare che sono una persona timida, poco socievole o, peggio, fredda; come la lampadina del paralume dalla forma geometrica.
Emana una luce così forte che quasi mi sembra di entrare in una sala operatoria, anche se per fortuna non ci sono mai stata.
Capisco immediatamente qual è il posto riservato agli aspiranti lavoratori. Una seduta in pelle, che a me pare un poggia piedi, posizionato, in linea d’aria, di fronte alla scrivania. Distante. Suppongo che ci dividessero circa quattro metri almeno.
Mi accomodo punta punta, nel vano tentativo di accorciare la distanza tra me e la figura che mi farà il colloquio, anche perché senza schienale è un po’ scomodo.
Non nego che ho impiegato più di qualche secondo per capire se fosse un uomo o una donna.
Capelli neri, corti, forse un caschetto o forse no, tirati all’indietro. Lineamenti del viso semi tondi, credo abbia qualche lentiggine. Occhi non pervenuti, coperti da due cornici rettangolari maculate.
Postura rigida, mani intrecciate sulla scrivania. Giacca blu e camicia bianca.
Dalla voce ho capito che era donna.
Mi fa qualche domanda – come ti chiami, anni, di dove sei.
Tutte cose scritte sul curriculum inviato, possibile che non lo abbia letto? In base a quale criterio mi hanno chiamata? Nel frattempo nella mia mente qualche neurone inizia a cercare nei ricordi per associare il suo tono di voce a qualcuno che ho già visto. Chi è?
Rispondo in modo gentile e sorridente.
Devo assolutamente fare bella figura, per me stessa e per tutti.
Tutt’ad un tratto si rivolge al suo segretario, suppongo. Parlano di altro. Un fornitore avversario e un cliente scontento, che ha chiamato per lamentarsi del brutto lavoro eseguito, della lunga consegna. Poi ridono.
Io mi assento un secondo. Odio le pareti tutte bianche. Alle spalle del “capo”, non ho capito il titolo da dovergli affibbiare, c’è un grande poster incorniciato di una città che non riconosco.
Palazzi giganteschi che sembrano voler raggiungere il cielo per oscurarlo.
L’ambiente sembra angusto, non mi lascia una sensazione serena.
Y: Non ti senti a tuo agio?
Chiede cogliendomi di sorpresa. Posso sentire il mio cuore in gola. Oddio e ora? Ho rovinato tutto?Respira e sbrigati!
Me: Assolutamente, mi sto guardando intorno.
Gli occhiali mi fissano, Y: Non si direbbe da come sei seduta.
Porca miseria, sto cercando di “avvicinarmi”.
Si rivolge di nuovo al segretario per organizzare un pranzo.
Sento vibrare il cellulare, mi hanno fatta accomodare così improvvisamente che non ho avvertito nessuno.
Non lo prendo, sarebbe sicuramente un gesto negativo per un colloquio. Inizio a sudare.
Respira con calma, non farti prendere dall’ansia. Stai andando bene, d’altronde non ti hanno chiesto nulla di difficile. Forse è una cosa negativa?
Mi domando perché spingermi in un angolo della stanza, cioè non mi mette per nulla a mio agio se devo essere sincera. Poi dove si è mai visto che ad un colloquio si sta con gli occhiali da sole scuri. Mi sento una cogliono che è venuta ad elemosinare un posto di lavoro.
Avverto un alone di negatività.
Y: Dicevi?
Cosa dicevo?
Me: Stavo osservando il quadro alle sue spalle, cercavo di capire quale città fosse.
Y: Non la riconosci?
Sorride palesemente.
Y: Quindi hai già fatto questo lavoro? Hai capito che dovrai avere a che fare con clienti di tutte le età? Quegli anziani sono i peggiori! Ti rammento che c’è la possibilità che si finisca oltre l’orario lavorativo e potresti spostarti in altre sedi, naturalmente qui a Roma. Firmerai un contratto che dice che tutto quello che vedi e senti non è divulgabile in nessun modo, pena, la denuncia. Avrai un mese continuo all’anno di ferie, non esistono settimane bianche e feste saltuarie. Avrai il weekend libero e in più tredicesima e quattordicesima. Tutto chiaro?
Muovo solo il capo avanti e indietro. È stata così rapida che onestamente per un momento ho immaginato che stava parlando di un bordello e che io ero l’ultima prostituta ingaggiata.
Me: Ho già coperto questo ruolo lavorativo e sono disposta a spostarmi e …
Y: Dimenticavo, la sede principale dove lavorerai non è questa. È la succursale. Se verrai assunta Giorgio ti fornirà l’indirizzo preciso. Puoi andare, grazie.
Mi coglie nuovamente di sorpresa.
Afferro lo zaino che avevo poggiato alla mia sinistra, per terra, mi alzo, urto lievemente un piede del poggia piedi in pelle. Volevo ufficialmente scomparire.
Me: Grazie comunque vada, è stato un vero piacere conoscerla. Buona giornata.
Esco così di scena.
Giorgio chiude la porta alle nostre spalle.
Vorrei qualche parola di conforto, vorrei che mi dicesse che tutto sommato è andata bene, che ci rivedremo, ho bisogno del lavoro. Ho bisogno di non sentirmi una nullità.
Lo seguo in silenzio per il lungo e stretto e, aggiungo, bianco corridoio.
Il telefono squilla, qualcuno aspetta in sala d’attesa. Chi l’avrà fatta accomodare?
Giorgio: Cara ti daremo una risposta in questi giorni, deve confrontarsi con il suo socio per assumerti.
Me: Certo, capisco, allora aspetto! Buongiorno e buon lavoro!
Scappato già nella sua stanzetta a rispondere a quell’insistente telefono fisso.
Quindi ha anche un socio. Magari è un po’ più simpatico di lei. Scendo dal palazzo. Finalmente aria.
Tolgo per qualche istante la mascherina.
Chissà com’è andata, non ci ho capito niente. Non ho percepito nulla. Tra qualche giorno avrò risposta, fammi controllare il cellulare.
Cavolo 16 messaggi. Li leggo velocemente senza aprire l’app, sono tutti vivi, vogliono solo sapere. Che dico?
Oh no. Mi sono sporcata di fard il polsino della camicia. (Faccia da sticker WhatsApp).
Lo sapevo, si è quasi completamente tolto da sopra al tatuaggio. Devo trovare una soluzione per coprirlo, ci vuole un anello.
Uffa, adesso dovrò spiegare a tutti la stessa cosa, cioè che non mi sono sentita per nulla a mio agio, che la “capa” ha praticamente la stessa voce di quello. Ma si quello la col pizzetto, mannaccia. Il cattivo di Anastasia, il cartone. Come diavolo si chiama?
…
Rasputin.
Immaginate Rasputin, immaginatelo donna. È lei.
