Stato d’animo
Sono naturalmente felice per il lavoro conquistato, anzi, sono felice al pensiero che inizierò a guadagnare e a mettere da parte dei soldi.
Il lavoro in sé per sé lo percepisco come insidioso. Il mio sesto senso continua a mettermi in guardia, ad accendere la spia luminosa nel mio cervello.
S. e C. speravano tanto che riuscivo a battere Rasputin, mi hanno spesso detto che tra tutte quelle che avevano visto prima di me io ero la più sveglia. Forse la più incosciente?
Comunque speravo vivamente di poterle frequentare anche al di fuori del contesto lavorativo perché a pelle mi trasmettevano positività e simpatia ed io chiaramente avevo bisogno di potermi confrontare dal vivo con qualcuno che potevo reputare amico.
Avevo scritto praticamente a tutti: ad R., mamma e papà, mio fratello Yuri, ai nonni e ai miei amici più cari a cui mancavo già tanto e che mi sarebbero mancati più di quanto credevo.
Il messaggio diceva semplicemente – È andata bene! – non volevo essere più entusiasta del previsto, siccome mancava ancora il contratto firmato.
Stranamente non ero emozionata, mi sembrava solo un giorno come altri. Mi risulta difficile spiegare esattamente come mi sentivo in quel momento.
Probabilmente quella attesa e quelle prove per dimostrare che avevo le carte in regola, mi avevano fatto calare l’entusiasmo che si dovrebbe avere quando si viene assunti in una città che non è la tua, con un contratto a tempo indeterminato.
A casa mi aspettavano per festeggiare ed io, da naturale guastafeste, non ero proprio nel mood. Forse avrei preferito che ad accogliermi quella sera, un po’ strana, ci fosse stata mia madre. Avevo proprio bisogno di un suo abbraccio e delle sue parole da psicologa che mi facevano incavolare perché alla fine, dentro di me, sapevo che aveva ragione. Da sconsolata, col dubbio di aver fatto una cazzata madornale ad aver combattuto per ottenere quel lavoro, mi sarei trasformata in una belva da saper coccolare.
È la verità, mamma mi faceva da pungiball, poi dopo 5 minuti passava tutto.
Quella sera ho provato a sorridere e fingere di essere felice per i miei suoceri, che mi stavano ospitando e trattando come una figlia, e per R. che non riusciva più a vedermi spenta e in uno stato depressivo a casa.
(Vi starete chiedendo: Chi ti ha puntato una pistola alla tempia obbligandoti ad accettare? Paradossalmente sono stata io, la parte ragionevole di me, quella adulta, responsabile. Quella che stava lì affacciata al balcone a pensare che a breve scadeva l’assicurazione dell’auto, che voleva una casetta propria, quella che si voleva togliere qualche sfizio.
Quella stronza si è lanciata senza sentire ragioni o ascoltare il mio sesto senso. Non poteva certo immaginare che ad un certo punto della storia si sarebbe ritrovata a combattere con la voglia di licenziarsi e bruciare quel posto del cazzo.)
Una volta a letto, finalmente, provo a spiegare le ragioni del mio stato d’animo e della maschera tirata su per cena. La mia fidanzata non riesce a capirlo fino in fondo, crede sia eccessivo che mi senta così fuori luogo in quel contesto familiare. Io sono felice di essere qui con lei per iniziare a costruire la nostra vita, ma a volte mi pare tutto troppo. Tutta questa gioia, tutte queste moine sono troppo. Io sono sempre stata abituata a centellinare l’affetto, per paura, lo ammetto, ma mi risulta estremamente difficile mantenere un livello così alto di “è sempre tutto fantastico” perché non lo è. Non voglio che si dispiaccia, vorrei solo riuscisse a mettersi nei miei panni e comprendere che vengo da 25 anni di tutt’altro, di una famiglia con difficoltà che non ha mai nascosto e adesso mi trovo catapultata nel mondo delle fatine di Maleficent.
Come previsto il discorso prende una piega storta e alla fine provo ad addormentarmi sentendomi ancora più sola di come non mi ero sentita entrando dalla porta di casa non mia.
